Post-punk: No Future

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nell’edizione cartacea del giornale Pennyroyal Tea del dicembre 2018.

Qualsiasi movimento rivoluzionario esaurisce il suo “slancio” avanguardistico quando raggiunge un notevole impatto sulla cultura di massa. Quando la controcultura diventa cultura stessa. È per questo che nel 1977, proprio quando i Sex Pistols cantavano “No future”, nasce il post-punk.

Il post-punk non è un genere musicale, né un’estetica o una categoria di mercato. Il post-punk è punk rovesciato. Punk revisited. È figlio delle avanguardie di inizio Novecento nella sua capacità di “immaginare il futuro”. Mentre il movimento punk “purista” sfocerà nell’Oi! conservando la sua matrice DIY, proletaria e legata all’anti-intellettualismo, gli artisti post-punk creeranno la classe “intellettuale anti-intellettuale”. Musicisti come John Lydon (Public Image Ltd.) e Mark E. Smith (The Fall) incarneranno la figura del proletario estremamente colto ma avverso al mondo intellettuale e all’arte in tutte le sue forme istituzionali: l’intellettuale anti-accademico, dedito a distruggere le barriere che separano l’arte e il quotidiano. I musicisti post-punk attribuivano il fallimento del punk, divenuto poi estetica di mercato, al voler rovesciare il rock convenzionale (Led Zeppelin, Pink Floyd, Deep Purple, etc.) tramite misure convenzionali. Per questo il post-punk pone come suoi preamboli l’estremismo, l’innovazione e il principio anarchico di distruzione: evitavano gli assoli, usavano soluzioni ritmiche crude e complesse, cominciarono a introdurre influenze di musica tribale, reggae e dub nel rock contemporaneo (in contrapposizione con il punk di inizi anni ’70 che aveva depurato completamente il rock dalle sue influenze africane più di quando non lo avessero già fatto i Led Zeppelin). Il post-punk nella sua estrema contemporaneità ricollegava i ponti con il rock passato, riaprendo al contempo la strada ai generi musicali ibridi eliminati dal purismo punk. Il post-punk prese ispirazione sia dal glam-rock artistoide, sia dalla musica sperimentale futurista di inizio secolo, che dalle frange più estreme del prog. Possiamo considerare padri della mentalità post-punk David Bowie, Iggy Pop e Brian Eno, mentre i primi due si distaccarono sempre di più dal rock americano per prendere le fredde tonalità europee della musica teutonica dei Kraftwerk e Neu!, Brian Eno era già un’icona per le sue produzione proto-new wave.

Il post-punk rivoluzionò anche il ruolo della politica nella musica, vista dal punk come mezzo propagandistico con un approccio grezzo, antiestetico, fatto di risse fra ideologie opposte e moralismo populista. Pertanto, l’avanguardia dell’epoca abbandonò la lotta nelle strade “us vs. them” per dedicarsi ad analizzare e rappresentare come i meccanismi di potere si intrecciano nella vita di tutti i giorni. “Il personale è politico” fu il punto di partenza per criticare in veri e propri romanzi di tre o quattro minuti luoghi comuni sulla sessualità, il lavoro, il consumismo e l’industrializzazione. Non a caso una delle influenze letterarie del post-punk fu proprio lo scrittore inglese J.G. Ballard che decantava il potere politico del sublime industriale, mentre Mark E. Smith ricongiungeva le fabbriche di città come Manchester e Sheffield con un soprannaturale lovecraftiano.

Parte dell’importanza culturale del post-punk è da attribuirsi alle politiche del tempo del governo inglese e americano che all’epoca cominciavano a sviluppare un capitalismo aggressivo basato su principi neoliberisti. La necessità di prendere “complete control” sulla controcultura alternativa fece delle case discografiche indipendenti che al tempo costituivano un minimonopolio anticapitalista veri e propri luoghi di culto ereditati da vecchi negozi di dischi musicali (Rough Trade, Drome, 99 Records), mentre in rapida crescita erano anche le riviste di stampa musicale (Sounds, Melody Maker, Record Mirror). Si creò una strana alleanza fra musicisti e giornalisti, totalmente impensabile nella cultura punk, dove molti giornalisti incidevano dischi e molti musicisti scrivevano periodicamente recensioni. È come se tutto l’apparato alternativo avesse gli occhi puntati sul futuro, sull’innovazione per dare finalmente una risposta a ciò che il movimento punk non seppe concepire: per cosa siamo a favore?

Se da un lato il post-punk si proponeva come fautore di una crescita e di uno sviluppo positivo nella musica alternativa caratterizzato dall’incorporamento dell’elettronica, dall’altro lato nascevano tendenze decisamente distruttive, volte a colpire il vecchio rock con rabbia e rancore, sradicandolo alle radici. I gruppi della cosiddetta “No wave” scelsero gli strumenti cardine del rock (chitarra, basso e batteria) per distruggerne completamente le basi. Talvolta nessun accordo, diretto contatto con il pubblico, la no wave aveva come scopo il “distruggere i propri i doli”, proprio come diranno i Sonic Youth nel 1983.

Dunque, il termine “post-punk” (o “new wave” checchessia) è volutamente indicativo. Gli anni 1977-84 ci hanno regalato l’ultima avanguardia postmoderna capace di creare un futuro, registrando vere e proprie pietre miliari nel frattempo: Joy Division, Pere Ubu, Talking Heads, Tuxedomoon, Glenn Branca, Teenage Jesus and the Jerks, XTC, Magazine, The Fall… solo per nominarne alcuni.

“E adesso?”, si chiesero gli artisti post-punk nel 1984. E adesso la scena alternativa diventava man mano più opaca, il giornalismo musicale perdeva vivacità, il culto per l’innovazione mordente. La cultura alternativa non guardava più al futuro, le classifiche erano capitanate da gruppi-cloni delle leggende post-punk. Un simulacro del progresso. Mancavano le etichette storiche (la Rough Trade chiuse a metà decennio), mentre la parola “indipendente”, che etimologicamente reincarnava il fai-da-te, si trasformò in “indie” per indicare una certa avversione al pop commerciale. Con l’indie si ritornò al purismo, soprattutto a un revival musicale della cultura anni ’60: armonie folk, allucinazioni psichedeliche e chitarre squillanti. Perfino gruppi-culto quali i REM e i The Smiths con il cantautorato e la malinconia folk ritornarono indietro. Tuttavia alcuni si seppero riprendere: i New Order ebbero uno splendido periodo anni ’80, i Cabaret Voltaire ancora sfornavano dischi meravigliosi. Il “futuro perduto” – la concezione di “retromania” teorizzata da Simon Reynolds – trovò posto nella cultura rave e acid house, fondendo il futurismo post-punk con le allucinazioni psichedeliche anni ’60, creando un nuovo spazio culturale autogestito cibernetico.

La questione post-punk resta ancora in sospeso. Questo perché la questione post-punk coincide con la questione futurabilità. Non manchiamo certo di gruppi innovativi, tanto meno di artisti che hanno saputo fare dell’internet una piattaforma democratica per farsi conoscere e portare nuove idee. L’arte è sempre stata una storia di citazioni, ma il culto per il passato sembra persistere in un’epoca che necessita di un grosso riscatto sociale, un complete control. Un’avanguardia giovanile che sappia, più di ogni altra cosa, immaginare il futuro e gridare: “No future a chi?”.

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Lingua Ignota – CALIGULA (2019)


I AM THE BEAST, COME PRAISE ME.

Sant’Ildegarda di Bingen è una delle figure più interessanti e dinamiche del medioevo germanico. Fu proprio lei a coniare il termine lingua ignota, una glossolalia ineffabile, un brusio comunicato solo fra monache, solo fra donne. E compose una musica inaudita, diretto dono divino.

A un anno e mezzo di distanza dall’uscita di questa capolavoro ho deciso di parlarne, non perché io possa aggiungere un contributo decisivo alla discussione (è stato già acclamato come pietra miliare della neo-nata scene neoclassical darkwave), ma perché l’intreccio di violenze, striduli sonori, sacrifici sacrali (Santa Anoressia, direbbe qualcuno) e il loro rispettivo climax wagneriano fanno di quest’album un etereo compagno per chiunque abbia subito quei depotenziamenti che chiamiamo traumi. Non solo black metal, nelle forze che abitano queste tracce c’è spazio per Bach, un pizzico di new wave e un timido accenno anche alla chanson d’Outrée francese (chanterai por mon corage). Parentetico l’accenno biografico, sarebbe pedante sprecare più di una parola per dirvi che Kristin Hayter è stata vittima di violenza domestica, è il suo dialogo con la serial killer americana Aileen Wournos (il suo unico movente fu la violenza patriarcale) nella traccia IF THE POISON WON’T TAKE YOU, MY DOGS WILL (miglior titolo dell’anno?) a fare del trauma psichico un’occasione per liberarsi dal suo corpo vessato: if you lay your life down, no man can take it. La violenza del dominio maschile dà vita al suo speculare opposto nel contralto di Lingua Ignota che oscilla costantemente fra megalomania (DO YOU DOUBT ME TRAITOR) e una litania liturgica (FRAGRANT IS MY MANY FLOWER’D CROWN).

Il richiamo in alcuni brani alla fraternità cristiana è pronunciato solo per esporre il suo volto patriarcale: for I have learnt that all men are brothers and brothers only love each other. Lingua Ignota è “una piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio” (così definì sé stessa Sant’Ildegarda), è una disillusa Santa Caterina da Siena (I don’t eat, I don’t sleep, I let it consume me) e la rabdomanzia del tappeto sonoro di quest’album serve a convocare forze segrete ed eretiche (Satan, Satan, Satan fortify me), la catarsi religiosa adesso non significa più nulla. Nient’affatto la voce di una virago quindi, CALIGULA è anche un album di estrema vulnerabilità.

Eppure l’aria funebre dell’opera approda a grandissimi momenti pop, MAY FAILURE BE YOUR NOOSE si apre con una volteggiante suite cameristica al piano mentre albeggiano in sottofondo le dissonanze per presto interrompere la scena idilliaca, oppure il rimando alla colonna sonora di Arancia Meccanica in BUTCHER OF THE WORLD (musica composta da Purcell per il funerale di Queen Mary, ricordiamolo), proprio per dimostrare come la violenza accompagni ogni istante dell’opera. Questi passaggi sono costanti e cruciali in CALIGULA, rappresentano dinamiche di potere che Lingua Ignota cerca costantemente di invertire, come in SPITE ALONE HOLDS ME ALOFT dove alla fine del brano interviene un coro femminile stremato: kill them all.
C’è uno strato dell’album credo poco sottolineato e riguarda l’aspetto corale e i baluginii che attorniano la voce di Kristin Hayter ogni volta che canta: si tratta di microcospirazioni, voci folkloristiche (si veda la traccia SORROW! SORROW! SORROW!) e oscure atmosfere ambient (l’opener FAITHFUL SERVANT FRIEND OF CHRIST è un chiaro esempio), un lavorio di cupi spiritelli – insomma, si viene consumati dal fuoco girando in tondo a questa notte.

Non per ultimo, è da menzionare lo studio e la tecnica canora di Kristin Hayter, per molti versi vicina a una Kate Bush o a una Diamanda Galás. D’altronde, nient’altro ci si aspettava dall’autrice di una tesi di diecimila pagine alla Brown University di Providence intitolata Burn Everything Trust No One Kill Yourself (terreno di sperimentazione, come avrete capito, delle tematiche esposte in CALIGULA), dall’estro perverso e stravinskijiano tanto da poter dar vita, almeno in parte, a quell’ibrido mostruoso che è la neoclassical darkwave.

Un brano introduttivo: DO YOU DOUBT ME TRAITOR

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